Dopo aver scritto ‘La nascita, il giorno più importante‘, ho continuato a elaborarne i contenuti rendendomi sempre più conto che la sua influenza sulla nostra vita è paragonabile a un filtro colorato perennemente piazzato davanti agli occhi. Il modo in cui l’esistenza si plasma dipende principalmente dalla qualità delle emozioni che ci accompagnano, e la nascita è l’evento che imprime a fuoco quella di base che le condizionerà tutte per l’intero arco della nostra vita terrena.

Mi sono poi imbattuto nel lavoro di Stanislav Grof, psichiatra e ricercatore nel campo degli stati di coscienza non ordinari (qui un approfondimento sul suo lavoro), potendo constatare che la mia idea, nonostante sia totalmente autoprodotta, ha validi fondamenti.

Nella prima metà del libro ‘La mente olotropica‘, lo scienziato la convalida in toto proseguendo in profondità e sviscerando l’importanza delle quattro fasi del nostro venire al mondo.

Scoprire l’imponenza della fama di Grof dopo aver conosciuto il suo punto di vista è stata una piacevole sorpresa, significa che molte persone sfuggono ai dettami della scienza più dogmatica e meno sensata attribuendo grande importanza a questo evento cruciale.

Era poi inevitabile che elaborassi a mio modo le informazioni acquisite in questi giorni giungendo a formulare un’ipotesi particolare sulle persone che, come me, sono venute al mondo in modo non convenzionale, ovvero (nel mio caso) tramite parto cesareo.

Mi spiego in termini molto semplici: se non intervengono fattori di disturbo, la goccia che si separa dall’oceano della Coscienza per diventare un piccolo Uomo, nella pancia della mamma si trova davvero bene. Certo, ormai si trova ‘nel mondo di qua‘, ma il suo passaggio è graduale, l’ambiente totalmente confortevole e il legame con ‘il mondo di là‘ ancora forte e rassicurante.

Al momento di un un parto normale l’utero, che sinora è stato un universo morbido e accogliente, comincia a comprimere con forza il piccolo allo scopo di espellerlo. La sensazione di soffocamento e di tradimento che ne emergono, insieme alle difficoltà e ai disagi fisici comunque imponenti e potenzialmente fatali che il nascituro sperimenta durante l’eternità che gli serve a uscire dal corpo della madre, fanno sì che, sempre e come minimo, viva una sorta di morte psicologica: l’universo uterino trova compiutezza in questa morte e la vita del piccolo ricomincia altrove.

E’ questa la nascita ‘vera’: dopo una quiete protrattasi per mesi, si esce dalla tenebra di un’esperienza allucinante che ha realmente rischiato di distruggerci, si viene salvati da un mondo che è sì totalmente sconosciuto, ma si presenta anche nei panni del salvatore e, per giunta, ci regala due semidei, due colonne (i genitori) sulle quali potremo poggiarci per costruire e plasmare la nostra nuova realtà. In una parola, ciò che proviamo è la ‘gratitudine’ assoluta.

Tutto ciò ha senso, appare un modo molto intelligente di mettere un nuovo essere nelle condizioni ideali per dare il meglio di sé.

Ma cosa accade se quella morte psicologica non la viviamo (qui il dramma della mia nascita)? Cosa accade nella nostra psiche se, invece, veniamo d’improvviso strappati dalla beatitudine di una quiete perfetta e introdotti in modo necessariamente traumatico in una dimensione che ci è totalmente aliena e, quindi, non ci lascia altra scelta che percepirla come ostile? Nessuna morte sancirà l’inizio della nostra riconoscenza per il nuovo mondo, nessuno romperà il forte legame con la Coscienza dalla quale ci siamo separati, e le figure genitoriali non acquisiranno ai nostri occhi l’enorme importanza che invece avrebbero se li percepissimo come i rappresentanti di un mondo accogliente e rassicurante piuttosto che totalmente ostile. Ecco che, perciò, si trascorre una vita nella sensazione di appartenere a un altro mondo, si rifiuta quello concreto e, molto spesso, ci si rifugia nel pensiero magico, ma questa è un’altra storia che avremo modo di approfondire.

Contenuto inserito da Francesco Pandolfi Balbi